Solo il M5S combatte contro la delega in bianco
Renzi impone al Senato il Jobs Act che straccia il diritto borghese del lavoro
Merkel approva. La sinistra del PD si arrende. Poletti sposa ufficialmente la concezione borghese dell'impresa capitalista
Il nuovo Berlusconi va spazzato via dalla piazza

“Le reazioni di una parte delle opposizioni sul Jobs Act fanno parte più delle sceneggiate che della politica. Ma noi andiamo avanti”: così la sera dell'8 ottobre un infuriato Matteo Renzi si scagliava contro i senatori del M5S che al mattino avevano dato battaglia in aula ritardando il voto di fiducia sulla sua “riforma del lavoro” che voleva presentare come un trofeo al vertice europeo di Milano. Ma in realtà la sceneggiata l'aveva fatta proprio lui, imponendo al Senato il voto di fiducia sulla sua legge delega che straccia il diritto borghese del lavoro, strozzando il dibattito parlamentare e impedendo la presentazione di emendamenti; tutto per fare in tempo, con un sapiente calcolo dei tempi, a presentare la sua “riforma” già approvata alla Merkel e agli altri leader europei prima della fine del vertice. Che comunque, anche se non è arrivata in tempo per la conferenza stampa finale, l'hanno approvata ed elogiata lo stesso, con la cancelliera che l'ha definita “un passo importante”, e con il socialista Hollande che dichiarava di guardare “con attenzione alla riforma del lavoro in Italia”. Il Fondo monetario internazionale aveva già espresso il suo “apprezzamento per lo spirito del Jobs Act” qualche giorno prima
In questo modo il nuovo Berlusconi ha dimostrato ancora una volta tutto il suo disprezzo per il parlamento, trattato alla stregua dell'“aula sorda e grigia” di mussoliniana memoria; come anche delle regole costituzionali, dato che in tutta la storia della Repubblica sono pochissimi i precedenti di un governo che pone la fiducia su una legge delega (che già di per sé equivale a farsi firmare una cambiale in bianco dal parlamento), senza cioè neanche poterne discutere le linee guida, ma costretto ad accettarle a scatola chiusa per via di un atto d'imperio del governo stesso. E tutto ciò nel silenzio assordante e compiacente del rinnegato Napolitano, che non vi ha trovato nulla da eccepire, complimentandosi anzi col governo a fine partita per aver portato a casa il risultato.

Pronto il soccorso di Forza Italia per Renzi
La fiducia è stata poi votata a sera tardi, a vertice finito, con 165 voti a favore, 111 contrari e 2 astenuti, grazie anche alla resa senza condizioni della sinistra del PD, a cui Bersani aveva raccomandato “responsabilità e lealtà” al governo, pur brontolando per i metodi banditeschi e ricattatori di Renzi, e consolandosi solo con la speranza di rifarsi “cambiando” la legge alla Camera. Un pietoso alibi che Renzi ha subito irriso e vanificato, annunciando che metterà la fiducia anche lì se tenteranno di ritardare il varo definitivo della legge che vuole in tutti i modi entro i primi di novembre. Solo tre civatiani, tra la quarantina di senatori PD “dissidenti” fino alla vigilia, Mineo, Casson e Lucrezia Ricchiuti, che adesso sono minacciati di espulsione dai renziani, non hanno votato la fiducia uscendo dall'aula. Un altro civatiano, Walter Tocci, l'ha votata dimettendosi subito dopo da senatore.
Nel caso comunque che la minoranza PD non si fosse allineata, era pronto per Renzi il soccorso di Forza Italia offertogli riservatamente da Berlusconi, facendo uscire dall'aula un certo numero di senatori forzisti per abbassare il quorum e compensare così gli eventuali voti mancanti. Tant'è vero che tra i 42 assenti la maggior parte erano del gruppo berlusconiano, che pure ha votato formalmente contro la fiducia al provvedimento: non certo perché contrario al Jobs Act e all'abolizione dell'articolo 18, che considera anzi un suo vecchio cavallo di battaglia, ma per non fornire argomenti all'opposizione interna a Renzi.
Non a caso il giorno precedente, nell'annunciare il voto di fiducia, Renzi aveva ostentato sicurezza, dichiarando: “Non temo agguati e ove ci fossero li affronteremo”. E ancor prima la sua vice, Debora Serracchiani, sull'eventualità dell'arrivo di voti da parte di Forza Italia, aveva dichiarato sfacciatamente a La Repubblica : “Porte aperte, non ne faccio una questione di colore o politica”.
I tempi dell'approvazione si sono allungati solo perché, in un eccesso di zelo filogovernativo, il presidente Grasso ha espulso il capogruppo del M5S Petruccelli e sospeso la seduta, nel tentativo di zittire le proteste e le dimostrazioni dei senatori di quel gruppo. Per quanto divisi al loro interno sull'articolo 18 (infatti la senatrice Fuksia poi si asterrà sulla fiducia e anche altri hanno fatto qualche apertura alla “riforma”), i 5 Stelle sono rimasti praticamente soli a condurre la battaglia contro il governo, esponendo cartelli di protesta, gridando slogan e protestando contro gli abusi della maggioranza e i metodi autoritari e faziosi di Grasso. Cosa che non ha fatto neanche SEL, che con la sua capogruppo De Petris si è limitata più che altro a lamentarsi perché Renzi aveva rifiutato il “confronto” e impedito la “discussione” dei loro emendamenti.

La filosofia filopadronale di Poletti e del PD
Molto più avanzato, al confronto, è stato invece l'intervento del 5 Stelle Giarrusso, che ha detto in faccia ai senatori del PD che l'articolo 18 “è il frutto delle battaglie degli anni '60, costate morti in questo Paese, e voi lo state svendendo”; che il PD vuole essere “il partito dei padroni”, e che “state seguendo un uomo che non ha mai lavorato nella sua vita, un solo giorno, se non alle dipendenze di suo padre, con un contratto fasullo per truffare lo Stato”. Un intervento, quello di Giarrusso, anche in risposta al PD Stefano Lepri, vicepresidente del suo gruppo e membro della commissione Lavoro, che aveva esaltato la logica liberista della legge delega parlando di “patto scellerato” imprese-sindacati sulla “inamovibilità del posto di lavoro”, che “i lavoratori devono accettare la logica dell'empowerment ” (responsabilizzazione, ndr), e concludendo il suo disgustoso intervento così: “L'idea è semplice: decida di più l'imprenditore e meno il giudice”.
Grasso ha sospeso la seduta dopo l'intervento, più volte interrotto dalle proteste, del ministro del Lavoro Poletti, venuto ad illustrare il maxi emendamento da votare in blocco in sostituzione del suo disegno di legge delega, che avrebbe dovuto tenere anche conto delle “raccomandazioni” della minoranza PD espresse in Direzione. Maxi emendamento presentato all'ultimo momento e che i senatori avevano a malapena potuto esaminare. Le proteste hanno raggiunto il culmine quando questo rinnegato, prima che la seduta fosse sospesa e il suo discorso interrotto (nella ripresa lo consegnerà scritto per guadagnare tempo), ha così spiegato la filosofia smaccatamente liberista, interclassista e filopadronale del provvedimento: “Il nodo irrisolto è ancora connesso a un'idea dell'impresa come, essenzialmente, il luogo dello sfruttamento del lavoro... noi dobbiamo cambiare radicalmente ottica: l'impresa è un'infrastruttura sociale nella quale le diverse componenti del sapere, del lavoro e del capitale coagiscono al fine di produrre nuovo valore. Conseguentemente, la relazione tra lavoro e impresa non può più essere interpretata solo dal binomio novecentesco conflitto e contratto”.

Mano libera per tagliare l'articolo 18 a tutti
Il maxi emendamento che il Senato ha approvato a scatola chiusa è ancor peggiore del ddl delega che lo precede, perché contiene intatti tutti i capisaldi antioperai di quest'ultimo che demoliscono il diritto borghese del lavoro, come la fine di fatto dell'istituto della Cassa integrazione, i contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti senza articolo 18, il demansionamento e il controllo a distanza dei lavoratori, ma in più si tiene abbastanza sul vago sui punti più controversi per dare mano libera al governo di peggiorarli a suo piacimento, quando tra sei mesi promulgherà i decreti delegati, sui quali il parlamento potrà dare solo un parere consultivo.
Non solo non c'è nessun accenno alle promesse fatte alla minoranza PD in Direzione sul mantenimento dell'articolo 18 per i licenziamenti per motivi discriminatori e disciplinari, ma si usa una formula volutamente vaga per lasciare la porta aperta a qualsiasi interpretazione, compresa l'abolizione dell'articolo 18 anche per i suddetti casi e non solo per i nuovi assunti, ma per tutti i lavoratori. Si parla infatti genericamente solo di “razionalizzazioni e semplificazioni” con l'“abrogazione di norme, connessi con la costituzione e la gestione del rapporto di lavoro”, e di “eliminazione e semplificazione, anche mediante norme di carattere interpretativo, delle norme interessate da rilevanti contrasti interpretativi, giurisprudenziali o amministrativi”.
In ogni caso, come ha ribadito Poletti nell'intervento consegnato scritto, l'articolo 18 sarà senz'altro abolito per i licenziamenti per motivi economici, e il reintegro al lavoro sostituito da un semplice indennizzo economico. E ciò avverrà in maniera automatica, senza l'intervento eventuale del giudice. Ciò significa che i padroni potranno licenziare a piacimento invocando semplicemente un pretesto economico, senza che il lavoratore possa neanche ricorrere al giudice per dimostrare la “manifesta” infondatezza del pretesto addotto, come ancora teoricamente gli è rimasto dopo la “riforma” Fornero.
Sparisce insomma anche l'ultimo debole potere deterrente che lo Statuto dei lavoratori garantiva ancora contro i soprusi, gli abusi e le repressioni padronali nei confronti di lavoratori, sindacalisti, scioperanti: è la dottrina Marchionne che diventa legge dello Stato sostituendosi allo Statuto dei lavoratori. E non c'è neanche nessun impegno formale a disboscare, come strombazzato da Renzi e da Poletti, la marea di contratti precari “in cambio” del contratto a tutele crescenti, ma solo un vago accenno ad un intervento per i contratti a progetto.

Renzi corre a dare la buona novella ai padroni
Non a caso l'organo della Confindustria, Il Sole 24 Ore, dopo il voto di fiducia titolava trionfante: “E' finito il Novecento”. E sempre non a caso, pochi giorni dopo, Renzi si è fiondato all'assemblea di Confindustria a Bergamo per offrire ai padroni, insieme all'agognato scalpo dell'articolo 18 e dell'abolizione degli oneri sociali per tre anni per i contratti a tutele crescenti con libertà di licenziamento, anche “la più grande operazione di taglio di tasse tentata in Italia” che farà nella prossima Legge di stabilità (con un sapiente accostamento simbolico tra i 18 miliardi di tagli di tasse e il taglio dell'articolo 18). Tra cui un regalo diretto di 6,5 miliardi in meno di Irap alle imprese, e una Spending review a suo stesso dire “mai vista”, di ben 13,5 miliardi da tagliare dalle spese di tutti i ministeri, sanità compresa, e dai bilanci di Regioni e Province. Non a caso è stato contestato dai metalmeccanici della Fiom.
Renzi va fermato prima che faccia tabula rasa di tutti i diritti e le conquiste dei lavoratori. Occorre lo sciopero generale nazionale di 8 ore, con manifestazione sotto Palazzo Chigi, vincendo l'ignavia e l'attendismo da parte della segreteria della Cgil, che non va per ora oltre la manifestazione del 25 ottobre, e l'opportunismo del segretario della Fiom, Landini, che si è detto pronto ad “occupare le fabbriche se dovesse passare la linea della riduzione dell'occupazione, dei diritti e del salario dei lavoratori”. Come se questa linea non fosse già stata oltrepassata dal nuovo Berlusconi, che va invece spazzato via con la lotta di piazza prima che sia troppo tardi.
E' ora che il potere passi al proletariato che crea tutta la ricchezza del Paese. E' ora che si sprigioni la lotta di classe contro il capitalismo e per il socialismo.

15 ottobre 2014